Perseveranza o talento?

Perseveranza o talento

Perseveranza o talento?  Perseveranza o talento? Perseveranza o talento?

Quanto conta il talento nei risultati che otteniamo? E quanto, invece, la fatica per ottenerli?

Quante volte, nella vita di tutti i giorni e con la leggerezza di un’esternazione, per classificare il successo di una persona, diciamo: eh, ma quello è un talento naturale! Quello lì è puro ingegno.

A noi esseri umani piace rilassarci e difendere la nostra pigrizia, soprattutto, nel giustificare il successo con il talento naturale o il genio.

Presumo che molti motivatori ne abbiano già parlato. Anche Nietzsche ne ha parlato, il filosofo tedesco, a proposito del ruolo dell’artista, sosteneva che le persone dell’arte e del genio vedono solo il risultato finale, mentre nessuno riflette su come si diventi artista o genio. Miriamo semplicemente ad ammirare il prodotto finito.

Perché le persone, nella maggioranza dei casi, si rilassano attribuendo il successo al genio?

Perché in ogni modo cerchiamo di evitare le nostre responsabilità. È una giustificazione che ci fa sentire deresponsabilizzati rispetto alle nostre reali possibilità e all’ipotesi scomoda di un confronto, di uno sforzo o nel tentativo di misurare se stessi. La giustificazione ci fa sentire più leggeri.

Recenti studi della psicologia hanno proprio valutato e formulato, in qualche modo, una teoria su quello che riguarda il successo, su cosa può veramente generare un risultato, arrivando a teorizzare una relazione espressa da queste due equazioni:

  1. Talento x lo sforzo applicativo e il desiderio di lavorare (effort) = competenza (skill)
  2. Competenza x sforzo applicativo e desiderio di lavorare = raggiungimento del risultato (achievement.)

Se dovessimo fare un’analisi analitica, lo sforzo applicativo, cioè la fatica, tradotto nel giusto termine, la perseveranza, entra sempre nel processo di produzione del successo, tutte e due le volte. Il successo lo riscontriamo esclusivamente nel secondo caso, e cioè una sola volta.

Un risultato che inequivocabilmente conferma questa teoria: a essere più decisivo, più della capacità di imparare rapidamente, tipica di chi ha talento, che pure è importante, è la caparbietà a provare e riprovare; come a dire: testa bassa e lavoro costante. Keep pushing, my friend.

È un comportamento che richiede non solo lo sport, ma anche, e sopratutto, l’analisi e l’operatività finanziaria. È la testardaggine che fa il genio, l’ostinazione, la costanza. 

È anche la domanda che si fa K. Anders Ericsson, professore americano di psicologia, nell’introduzione del suo – Numero uno si diventa –:

“Perché le persone sono bravissime nel loro lavoro? Ovunque rivolgiamo lo sguardo – dallo sport alla musica, dalle scienze alla medicina e agli affari – ci imbattiamo sempre in alcuni individui eccezionali che ci stupiscono per ciò che sanno fare e per quanto sono in grado di farlo bene. E quando ci troviamo di fronte a una di queste persone tendiamo naturalmente a pensare che sia nata con qualcosa in più. È così dotato – diciamo – ha un vero dono. Ma è davvero così?”.

Il professore ha studiato per più di trent’anni le performance degli esperti e le prestazioni eccezionali nella musica, negli scacchi, in medicina e nello sport.

Ericsson e altri ricercatori non sono mai riusciti a trovare un grande esperto che si sia poco impegnato nella sua materia prima di essere tale. Anzi, spesso studiando la biografia di alcuni di essi si è constatato, piuttosto, come all’inizio fossero scarsi nelle loro performance e che, quindi, non si sarebbe potuto dire, osservandoli, che erano proprio “portati”.

In uno studio condotto negli anni ’90 nella prestigiosa Accademia Musicale di Berlino, Ericsson e altri, con l’aiuto dei professori, divisero i violinisti nei tre gruppi: “stelle”, “bravissimi” e “bravi”. Gli studenti dichiararono di aver cominciato a suonare più o meno intorno ai 5 anni di età. Le differenze nelle ore di esercizio erano emerse intorno agli 8 anni. I violinisti qualificatisi “stelle” si erano esercitati più degli altri: da 6 ore a settimana a 9 anni, fino a superare le 30 ore a 20 anni, età in cui i migliori musicisti selezionati avevano accumulato almeno 10.000 ore di pratica. I “bravissimi”, quelli del secondo gruppo, avevano circa 8.000 ore, mentre i “bravi” meno di 4.000.

Nacque così la “teoria delle 10.000 ore”, soglia dell’eccellenza, dopo le quali è possibile raggiungere alti livelli in ogni ambito. Il prof. Ericsson ha però precisato anche, per non rischiare di cadere in banalismi vari, che non bastano dieci o vent’anni di pratica, ci vuole anche un metodo, quello che ha chiamato “pratica deliberata” o intenzionale, nel quale ci sono continui obiettivi di miglioramento e monitoraggio continuo sui propri progressi.

Possiamo tradurre tutto questo con una semplice parola: perseveranza. La perseveranza è la somma ossessionante di micro gesti di assoluta perfezione praticati ogni giorno. Le doti naturali contano, sì, ma conta molto di più la voglia di faticare e di non arrendersi. 

Se dovessi portare un esempio cinematografico, mi viene in mente un personaggio e un film senza tempo: Rocky Balboa. Che siate o meno fan della saga del pugile italo americano, il nome Rocky trascende le sale cinematografiche e fa parte della cultura popolare del nostro tempo.

Rocky è una storia di riscatto sociale che insegna come chiunque, anche gli esclusi dalla società, possano trovare la strada per risalire se solo hanno il coraggio e la fede di perseguirla. Durante i suoi combattimenti, nonostante i poderosi pugni ricevuti sul ring e la sensazione del pubblico che stesse per cadere, non mollava mai, era sempre lì con in mente la sua vittoria.

Proprio la perseveranza e la fiducia in se stesso sono le armi che permettono a Rocky di arrivare alla finale dei pesi massimi e riuscire a conquistare il favore del pubblico e il titolo di campione.

L’algoritmo del genio, insomma, è fatto da una sequenza di preparazioni in cui ciascuno di noi può cimentarsi per conquistare un centimetro al giorno.

È la disponibilità a sacrificarsi per quel centimetro che è determinante, e qui preferisco citare e continuare la frase con Al Pacino in – Ogni maledetta domenica -: perché sappiamo che quando andremo a sommare tutti quei centimetri, il totale, allora, farà la differenza fra la vittoria e la sconfitta.

A questo punto, possiamo anche affermare che perseverare è geniale.

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